Il progetto “Visioni Religiose” nasce dal presupposto che l’arte della fotografia è un’arte giovane, di inizio Ottocento, e come tale, può rivoluzionare i punti di vista tradizionali, come i nostri simulacri religiosi, tuttora ancorati alla pittura di insuperabili maestri del Cinquecento. Madonne, Angeli, Santi… inquadrati con la ‘scatola nera’, ci donano una religiosità contemporanea, legata al quotidiano. I soggetti ripresi non sono più figure mitologiche ma persone che incrociamo per strada, e magari schiviamo perchè differenti da noi.
Giulio Malfer presents “Visioni Religiose” a project that arises from the assumption that the art of photography is a young art – early nineteenth century – and as such can revolutionize traditional points of view, such as our religious simulacra, still anchored to painting of unsurpassed masters of the sixteenth century.
COME VIVREMO IN UN PROSSIMO FUTURO
Se lo chiedi oggi, alle persone recluse nei loro appartamenti, ti risponderanno che vorrebbero vivere nè più nè meno come prima dell’arrivo della peste anno 2019. Questa è la massima speranza per quando tutto sarà superato. La nuova ripresa dopo la grande paura. Tutto dovrà tornare come prima più di prima per cancellare la memoria di quello che abbiamo vissuto.
E poi…
Ci ritroveremo sempre più chiusi dentro il nostro respiro. Obbligati alla solitudine dal distanziamento sociale. Costretti a una mobilità, controllati da un’app algoritmica. Semplici spettatori di una natura che rinasce. Un pianeta che non abbiamo voluto capire e che prosegue la sua vita oltre noi.
E’ quello che abbiamo visto in questi giorni. Abbiamo avuto la fortuna di vedere il futuro, come uno sciamano, sotto l’effetto di sostanze allucinogene, vede la sorte che incombe.
Come agisce la memoria, da quali profondità arriva e perché ci ritorna facilmente? A volte basta un odore per suscitare il ricordo, un luogo, una sensazione. La madeleine di Proust. Altre volte siamo noi stessi ad attivare il ricordo volontariamente attraverso la ricerca di documenti del passato, scritti, fotografie, oggetti d’uso quotidiano ormai in disuso: materiali d’archivio a supporto della memoria. In greco il termine “memoria” ha la stessa radice di “smaniare”, desiderare, e al contempo di “martire”, colui che è testimone. Due aspetti che delineano insieme l’atto del ricordare. Teniamo traccia del passato perché non vogliamo lasciarlo andare, e d’altra parte non possiamo dimenticare perché l’esperienza vissuta ci ha segnato così profondamente da diventare un punto nodale della nostra esistenza.
La memoria interrogata da Giulio Malfer è una memoria duplice, tanto tenace quanto labile: rapace a un tempo e fragile e inerme nei confronti dell’oblio. É una memoria raccontata sulle lastre di pietra tombale, fotografie comuni consumate dal tempo, dove i lineamenti scompaiono per lasciare spazio a macchie incolori, slavate e corrose, che restituiscono l’immagine al bianco nulla in cui scompaiono i ricordi. La memoria ci abbandona se non è frequentata: “Polvere eri e polvere ritornerai”. Come si dimenticano le poesie imparate da bambini, dimentichiamo oggi la Storia, le guerre, la lotta, mentre muoiono con i Partigiani gli ultimi depositari della memoria storica della Guerra. Potremo in seguito ritrovarla nei libri, nelle carte e nei film d’epoca, ma non più negli occhi vispi che rivivono il ricordo, nel volto inciso dalle rughe profonde come cicatrici, nel fremito delle mani che hanno stretto il fucile. Per far affiorare i ricordi serve interrogarli, serve attenzione, dedizione, cura, quella che oggi solo i bambini e gli storici riescono ad avere, gli uni per amore del racconto, come ricorda Cristina Campo, gli altri per quell’attitudine da “straccivendolo” di cui parla Benjamin nei Passagenwerk che porta a ricercare ovunque le tracce, i frammenti su cui si basa la storia. Mattoni che ora, più che mai, vediamo tremare. Emblematico è il caso del cane Loukanikos con cui si apre la mostra, assunto a simbolo della rivolta durante le manifestazioni in Grecia dove si trovava sempre in prima linea contro la polizia. Dalla copertina del Time, la sua storia è finita oggi del tutto dimenticata.
La memoria chiede di essere “attivata” come una moderna installazione multimediale: si devono accendere i ricettori, sintonizzarsi sul suo canale, passarci accanto e fermarsi, dedicarle tempo. Riattiviamo e salviamo il ricordo quando stringiamo tra le mani il ritratto dei nostri cari (“Ad occhi chiusi”) tentando di salvarlo dall’incessante lavorio del tempo che ne rosicchia i lineamenti. Quando con assiduità li salutiamo ogni giorno sulla mensola su cui sono collocati come numi tutelari a protezione delle antiche case romane. Così si deve attivare la memoria del passato facendola riemergere dal buio dell’oblio, avvicinandola con la nostra attuale presenza, sfregandola come un cerino fino a che non nasce la scintilla. Serve tempo e fatica per attivare “Touch” di Giulio Malfer, fotografie stampate su carta termosensibile che, se riscaldate dal passaggio delle dita, fanno emergere i volti ormai scomparsi delle vittime della Shoa. Ci viene richiesto tempo e fatica per leggere i racconti scritti bianco su bianco delle loro storie, in un rilievo sottile che si intravede appena se visto in controluce. O i caratteri piccolissimi con cui Malfer scrive sul vetro la storia dei Partigiani, dimensioni che impongono un avvicinamento, una sospensione della visione a distanza tipica dello spettatore che fa superare le barriere ed entrare in quella sfera confidenziale che la prossemica definisce intima. Da questa distanza possiamo scorgere le mille e mille rughe nel palmo della mano di un vecchio reduce del fronte del Don, gli occhi che si accendono nella cavità oculare, che ci fanno immergere empaticamente nei ricordi come se fossero i nostri. Se il compito del fotografo è documentare, Giulio Malfer ci aggiunge quello del filosofo perché interroga, scompagina certezze e non propone soluzioni. Tutta l’operazione di Malfer è un invito all’approfondimento e alla lentezza, direzioni contrarie al moto attuale che brucia e consuma le esperienze attribuendo loro le caratteristiche spettacolari e temporanee di un evento. Una denuncia sottile della società dell’immagine, della sua ingordigia nei confronti della realtà e della fagocitazione del racconto. Della sua supremazia sul concetto, sulla storia che sta dietro ogni volto, sul sentire. Le fotografie di Malfer sono un invito oggi a non dimenticare: un monito, un promemoria per i tempi futuri, “A futura memoria”.
Giulio Malfer è nato a Rovereto (Italia). Studia Agraria all’Università di Padova e Architettura all’Università di Firenze, dove frequenta il corso di fotografia alla Scuola Internazionale “f 64” e, sempre a Firenze, frequenta il corso di fotografia di moda diretto da Leonardo Maniscalchi. A Milano, Bologna, Firenze, frequenta vari stage con fotografi di fama internazionale. Nel 1990 inizia l’attività di fotografo nel campo pubblicitario e industriale, collaborando con diverse agenzie. Dal 1995 si dedica esclusivamente alla fotografia di moda nel settore delle scarpe. Collabora in modo continuativo con varie istituzioni pubbliche e musei, tra cui il Museo Storico della Guerra, la rassegna Montagna Libri, la rassegna Internazionale Film Archeologia, i Musei Civici di Rovereto, l’Assessorato alla Cultura della Provincia Autonoma di Trento, il Museo Retico, l’Istituto Culturale Ladino. Collabora con il Centro internazionale d’arte “ArteStruktura” di Milano realizzando una ricerca fotografica sul ritratto ad artisti che durerà 5 anni. Nel 1996 con il progetto “Sguardi dall’Alto” inizia i lavori ritrattistici che lo portano ad impegnarsi per anni su temi diversi: “Partigiani”, “Senza Ritorno”, “Indagini Alpine”, “Lavoro Sporco”, “Bosnia”, “Adotto un’Anima”, “Touch” (realizzato con la collaborazione del fotoreporter Piero Cavagna). Collabora all’installazione di Franco Vaccari “Transiberia” a Transart Rovereto e partecipa alla performance dell’artista Greta Frau ad Arco. Suoi lavori sono conservati presso il Centro internazionale arte “ArteStruktura”, il Museo Ladino, l’Archivio del Museo di Meubourge, l’Archivio Fondazione Querini Stampalia, la collezione del Museo del territorio Biellese, l’Archivio del Museo Civico di Rovereto, il Museo Retico. Attualmente vive tra Rovereto e il resto del mondo.
Giulio Malfer studied Agriculture at the University of Padua and Architecture at the University of Florence, where he attended the photography course at the “f 64” International School and, also in Florence, he attended the fashion photography course directed by Leonardo Maniscalchi. In Milan, Bologna, Florence, he attends various internships with internationally renowned photographers. In 1990 he began his activity as a photographer in the advertising and industrial fields, collaborating with various agencies. Since 1995 he has dedicated himself exclusively to fashion photography in the shoe sector. He collaborates on an ongoing basis with various public institutions and museums. He collaborates with the “ArteStruktura” international art center in Milan by carrying out a photographic research on the portrait of artists that will last 5 years. In 1996 with the project “Sguardi dall’Alto” he began the portraiture works that led him to engage for years on different themes: “Partisans”, “Without Return”, “Indagini Alpine”, “Dirty Work”, “Bosnia”, ” I adopt a Soul”, “Touch”. (made with the collaboration of the photojournalist Piero Cavagna). He collaborates in the installation by Franco Vaccari “Transiberia” at Transart Rovereto and participates in the performance of the artist Greta Frau in Arco.