Caterina Ghisu, storica e critica d’arte, scrive:
“e se gli oggetti smettessero di essere solo dei beni di consumo – la felicità del capitalismo – ma interrompessero la loro consunzione per iniziare a raccontarci delle storie, le loro e le nostre? Siamo capaci di ascoltare quel vecchio Nokia che conserviamo per ogni evenienza (tanto non ci entrerebbe la SIM), quei collant smagliati, quell’apribottiglie a forma di civetta? Siamo (forse) capaci di parlare di quegli oggetti, ma non sono sicura che riusciremmo a far parlare loro.
Tiziana Contu sì, ne è capace.
Lei conosce l’arte di dare voce agli oggetti che giacciono indisturbati negli abissi delle borsette femminili, nei fondali dei cassetti o nascosti sotto la sabbia della spiaggia Poetto come una tracina. E conosce l’arte di far parlare questi oggetti mescolando serietà e ironia in dosi che solo lei sa. Come scrive Massimo Cacciari “il concetto di ironia per l’interpretazione dell’arte contemporanea non sarà mai a sufficienza indagata” (1). Il fatto sta che funziona, perché Tiziana ci fa sorridere ma soprattutto riflettere, che non è poco. Come quando in Due addii, due arrivederci, prende quattro lettere – Virginia Woolf al marito prima di suicidarsi, Georges Simenon e Antonio Gramsci alle proprie madri, Albert Camus al maestro delle elementari dopo il Nobel per la letteratura – e le espande in strisce verticali che creano uno spazio nelle sue gabbie metalliche, facendole diventare intrecci e fili che ci contengono, per poi comprimerle in spazi lillipuziani eppure sovrumani. Tiziana Contu lavora sulla compressione ed espansione degli oggetti che trovano una loro dimensione nello spazio che viene loro assegnato nelle scatole, per espandersi invece nel nostro pensiero attraverso la vista e gli altri sensi. L’ elenco di alcuni degli oggetti che vedete qui alla mostra della Galleria VisioniAltre di Venezia comprende: alcune foto di Tiziana bambina / una forchetta / una scatola di Cibalgina / una scheggia di legno / frammenti di piastrelle / un mozzicone di matita / due lenti di occhiali / cinque pennini / una vite arrugginita / un galleggiante / un pennello / ritagli di quotidiani / una pietra.
A ciascun oggetto corrisponde la sua voce, il suo racconto. La scatola di Cibalgina bisbiglia la sua complicità di oblii ovattati, la scheggia di legno ricorda il profumo di mare e di vento, quando era il nido di vacanze in famiglia, è tutto ciò che rimane di un cabanon estivo colorato, distrutto da una ruspa, i pennini in disuso conservano la memoria di parole graffianti, il triciclo rosso di Tiziana bambina il sogno di spiegare ipotetiche ali per volare lontano.
Mentre guardiamo questi oggetti racchiusi nelle loro scatole e leggiamo le loro storie, ci chiediamo quante voci inascoltate possiedono gli oggetti dimenticati che ci circondano, se solo fossimo capaci di fermarci ad ascoltarli, e che suono avrebbe una matita o una pietra parlante. Viene in mente Il Museo dell’Innocenza a Istanbul, ispirato al romanzo di Orhan Pamuk che racconta un’infelice storia d’amore attraverso degli oggetti di uso comune, tra cui i 4.213 mozziconi di sigaretta fumate dalla donna amata da Kemal, il protagonista.
“Il trauma, lo shock va allegorizzato, va trasformato, per la forza dell’allegoria, in storia-e-destino. È necessario che la metamorfosi avvenga senza tradire in alcun modo la potenza di quel colpo, è necessario, anzi, che l’allegoria lo renda ancora più indimenticabile ”(2), è ciò che accade nell’opera “I piedi”, in cui Tiziana Contu, nella foto che la ritrae con il padre, scomparso quando era giovanissima, gli taglia i piedi perché lui non possa più andare via. Quando gli tagliò i piedi/perché erano troppo grandi/non poteva sapere che,/anche senza piedi,/se ne sarebbe andato via presto, recitano i versi di accompagnamento, scritti, come le altre didascalie, con una vecchia Olivetti Lettera 22. Che sia un trauma personale come la morte prematura di un padre, o collettivo, come in Non voglio più sapere niente, che parla dell’overdose di informazioni sulla pandemia da Covid-19, l’allegoria ha la forza di renderlo indimenticabile perché non smorza la potenza e la portata di quel dolore, ma lo rende tangibile attraverso il gesto del ritaglio di una foto o dell’accumulo compulsivo e inutile di notizie. Chiedo scusa se in questa breve introduzione alle Parole in scatola di Tiziana Contu non ho fatto riferimenti ai ready made di Marcel Duchamp o agli object trouvee di Arman, o ai New Dada e agli artisti concettuali del secondo dopoguerra: è chiaro che la ricerca artistica di Tiziana Contu ha radici lunghe e ben ramificate. Il lavoro sulla parola è stato portato avanti da artiste come Jenny Holzer e i suoi Truism, da Barbara Kruger con le sue riflessioni su temi politici e sociali e sui luoghi comuni della società moderna, e dalla nostra Maria Lai con i suoi libri cuciti.
Il senso della mostra Parole in scatola si avvicina piuttosto a una Spoon River degli oggetti dimenticati, in cui, con pochi versi, li si riconnette saldamente al filo della memoria.”
(1) M. Cacciari, Il produttore malinconico, prefazione a W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, 2011, IX
(2) M. Cacciari, cit., XXVII